Mio padre, prigioniero di guerra italiano

Ed:10/05/05


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1. Aprile- Ottobre 1943: Provenza

Soldat italien Mio padre, Callisto Bortoli, era nato nel 1909 a Calavino, un piccolo comune del Trentino, nell’Italia del Nord. Aveva compiuto il suo servizio militare negli anni 1929-30, nel corpo degli Alpini Richiamato e congedato più volte tra il 1939 e il 1942 gli è stata inviata nuovamente la cartolina nel gennaio del 1943. Nell’aprile dello stesso anno viene inviato in Provenza come componente delle truppe di occupazione italiane nelle vicinanze di Tolone sulla Costa Azzurra: Bandol, Sanary e poi nell’isoletta de La Tour Fondue che si trova dirimpetto al porticciolo di Le Brusc (attualmente comune di Six-Fours les Forges) fino al settembre 1943.

Qui vis ono numeorsi soldati originari della setssa regione ed in modo particoalre un coetaneo dello s stesso paese, Cornelio parisi con il quale vivrà l’intero periodo della guerra e del successivo internamento.

E la festa quando riceve delle gallette inviate pe rposta dalla sua famiglia. Durante l’occupazione dell’isola le truppe sono sempre sottoalimentate, e in più devono fare i conti con la sete.

La raccolta dei crostacei è vietata alla popolazione locale ma permessa alle truppe di occupazione che ne fanno oggetto di un piccolo commercio: mitili in cambio di vino, unica sostanza ‘alimentare’ di cui la popolazione locale disponeva in misura maggiore rispetto ai soldati italiani. Talvolta era qualche coniglio delle case vicine che spariva durante la notte… Perfino un cane randagio che si era approssimato ai soldati era stato macellato…L’ufficiale italiano che aveva intuito le loro intenzioni li aveva ammoniti di non farlo, ma la fame era troppa così i soldati furono sorpresi dall’ufficiale mentre erano intenti alla cottura del povero animale e ordinò di gettare tutto in mare. Mio padre, in un’altra stanza tratteneva a stento le risa, malgrado la fame non avrebbe mangiato l’animale e si immaginava i musi lunghi dei commilitoni che avevano potuto mangiare soltanto il cuore e i polmoni posti a cuocere a parte.

soldats italiens

soldats italiens

   

   Il 25 luglio, giorno della caduta di Mussolini, mio padre è in permesso agricolo al suo paese; non pensa minimamente a disertare e il giorno dopo, finito il permesso, intraprende il viaggio di ritorno per la sua isola. Il 2 settembre la sua compagnia dovrebbe ritornare in Italia, ma il capitano rifiuta di far viaggiare i suoi uomini sui vagoni scoperti, troppo facile preda delle sassaiole dei francesi. Bisognerà aspettare una decina di giorni prima di poter disporre di vagoni coperti. La sera dell’8 settembre, però, gli Italiani vengono disarmati e presi in ostaggio dai tedeschi, Nei giorni successivi ripetutamente vengono radunati e posti di fronte alla scelta di combattere al loro fianco o di recarsi "volontariamente" a lavorare in Germania. La maggioranza di loro rifiuta ambedue le opzioni. Soldati e ufficiali sono insieme; mio padre guarda stupito gli alti ufficiali che sbucciano le patate insieme a loro e che partecipano la loro tristezza sapendo di essere destinati a qualche campo di internamento per ufficiali in Germania

 

2-Prigioniero dei Tedeschi- Trasferimento in Bretagna

A partire dal 20 settembre gli Italiani non hanno lo status di prigionieri di guerra ma quello di "internati militari" ciò che li pone al di fuori dell’applicazione della Convenzione di Ginevra. Il 14 ottobre, giorno onomastico di mio padre, è la partenza per la Bretagna: sei giorni di viaggio in treno fino a Quimper. Nelle settimane successive gli "internati militari" sono adibiti alla posa di mine sul litorale sud della costa bretone e ai lavori di fortificazione per il Muro dell’Atlantico. In seguito mio padre, assieme ad alcuni altri viene condotto in un ospedale militare tedesco a Plouay. Qui si occupa delle corvees di servizio ed in particolare, assieme ad un commilitone siciliano e scortati da un soldato tedesco, deve recarsi giornalmente alla stazione ferroviaria di Hennebont, con un carro trainato da due cavalli, per trasportare le derrate necessarie all’ospedale.

Nel corso di una giornata invernale, mio padre e l’altro soldato si avvicinarono a un fuoco acceso dai ferroviari, per riscaldarsi lasciando il carro senza controllo. Il passaggio di un treno accompagnato da un fischio spaventò i due cavalli che partirono al galoppo in direzione di uno dei ponti che attraversano il fiume locale, il Blavet, per arrestarsi contro un autobus di linea che veniva in senso opposto. L’inchiesta che fece seguito all’incidente non aveva potuto provare una responsabilità precisa di mio padre,ma, nei giorni successici, un veterinario tedesco, ma originario della provincia di Bolzano, con un certo sadismo insisteva perché mio padre andasse sotto il ventre di uno dei due cavalli con un pennello per disinfettare la ferita che si era procurata nel corso dell’incidente. Vedendo l’atteggiamento dell’animale che si imbizzarriva non appena qualcuno gli si avvicinava, mio padre si rivolse al veterinario nel suo dialetto trentino, che sapeva essere compreso dall’altro e gli disse: Tò la pistola e cópeme se te vòi, ma no vago a farme copàr dal caval"(Prendi la pistola e uccidimi se vuoi, ma non vado a farmi uccidere dal cavallo).

Il veterinario non insistette trovando un altro mezzo per curare la ferita.

I lavori preferiti dai prigionieri erano quelli della cucina; questi permettevano loro di portar fuori qualche patata da cuocere in baracca e saziarsi un po’. Non conoscendo la parola "sale" in francese, i prigionieri ebbero qualche problema a farsi comprendere dal droghiere. Ma questi traffici non durarono a lungo. I tedeschi erano stati avvertiti e così i prigionieri erano sistematicamente perquisiti alla loro uscita dalla cucina. Tuttavia nel ricordo di mio padre, questo periodo non era segnato dalla mancanza di cibo come era avvenuto in Provenza e come succederà nei campi di prigionia alla fine della guerra.

Un altro ricordo di questo periodo era collegato ai contatti intrattenuti da mio padre e dal suo amico Cornelio con i resistenti francesi, contatti che erano stati favoriti dal parroco presso cui si recavano a messa la domenica. Si immaginavano, in questo modo, di poter realizzare la loro evasione. Ma la cosa non ebbe seguito. I tedeschi avendo qualche sospetto presero la decisione di impedire l’uscita dei prigionieri per la messa rinchiudendoli, la domenica, nella loro baracca.

 

3. Il trasferimento a Pontchâteau

Dopo lo sbarco in Normandia e l’avanzata delle truppe alleate l’ospedale tedesco dovette essere trasferito da Plouay a Ponchâteau che si trovava nella sacca di Saint Nazaire.

Séminaire de Pontchâteau

'L’ex seminario dei Religiosi Monfortani presso il Calvaire de Pontchâteau  che serviva da ospedale militare; di fronte vi erano le baracche dei prigionieri

 

Questo ospedale era stato sistemato nei locali di un seminario dei religiosi dell’ordine fondato da Saint Louis Marie Grignion de Monfort. L’edificio, nel luogo detto il Calvaire de la Madeleine, si trova su un leggero rilievo che domina l’odierno parco naturalistico della Grande Brière.

"Eravamo una ventina di italiani, di diverse regioni (mio padre e il suo amico del T-rentino, 5 o 6 piemontesi che avevano appartenuto alla compagnia sanità, un maestro della Liguria, un siciliano, un napoletano… " Nella loro baracca avevano il diritto di prepararsi il cibo con i soldi che ricevevano per il loro lavoro; acquistavano dai contadini dei dintorni le patate, la farina , le uova. Erano anche in grado così di prepararsi le lasagne disponendo le sfoglie a cavallo di una piccozza messa di traverso…A volte c’era anche il ragoût, a rischio di avvelenamento, perché utilizzavano le scatole di carne scadute ed eliminate, per questo, dai tedeschi.

Il primo lavoro di mio padre è stato quello di preparare un piccolo cimitero a fianco della chiesetta ai piedi del Calvario. In seguito i suoi compiti principali erano quelli di scopare le stanze dei degenti e l’approvvigionamento idrico dell’ospedale.

Chapelle de Pontchâteau

 

A fianco dell’ospedale vi era una baracca per la disinfezione. I soldati tedeschi di tutta la zona vi si recavano periodicamente, a gruppi. Mio padre si ricorda che quando era il turno di SS il resto del personale tedesco dell’ospedale appariva in stato di agitazione. In effetti gli SS erano sempre sovreccitati, anche quando erano ricoverati. Un giorno mio padre entrando in una stanza per le pulizie vide un SS, gravemente ferito, che soffriva enormemente, rivolgendosi a lui gli disse nel suo tedesco: "nicht gut Krieg, nicht wahr ?" e l’altro per tutta risposta: "Nein, ist gut, gut !".

Come detto, uno dei compiti di mio padre era quello di riempire il serbatoio d’acqua per i servizi dell’ospedale recandosi con delle botti nei pozzi dei dintorni. È in queste circostanze che ha potuto fare la conoscenza di quella che sarebbe in seguito divenuta sua moglie, Mia madre originaria di Saint Nazaire si trovava sfollata con la famiglia in un villaggetto (Le Buisson Rond) nelle vicinanze del Calvaire de la Madeleine nel comune di Crossac. Avendo perso il suo lavoro (lavorava in una ditta di confezioni che era stata distrutta dai bombardamenti), si trovava impiegata come guardarobiera nello stesso ospedale militare.

In un primo momento i prigionieri non erano rinchiusi, di notte, nelle loro baracche (la "toilette" si trovava all’esterno) e mio padre ne approfittava per uscire frequentemente e andare a trovare la sua fidanzata. In seguito i tedeschi preoccupati dei possibili incontri fra prigionieri e partigiani impedirono queste uscite. Tuttavia, avendo scoperto una piccola apertura, mio padre usciva ugualmente. Finché una notte, a causa della nebbia che gravava sulla zona non riusciva più a trovare il passaggio e venne scoperto dalla ronda tedesca. Fortunatamente uno dei due soldati finse di credere alle giustificazioni di mio padre e riuscì convincere anche il collega a non fare rapporto.

4. Fine della guerra

Nei primi giorni di maggio del 1945 l’ospedale venne trasferito a La Baule, ma i prigionieri italiani rimasero sul posto, con grande delusione di mio padre che aveva progettato di svignarsela approfittando del trasferimento. Nei giorni successivi vengono "affittati" a contadini del posto. Per mio padre la situazione era ideale: fare un lavoro che gli piaceva, mangiare in abbondanza e potere ricevere, di tanto in tanto le visite della sua fidanzata, Ma dopo pochi giorni tutti i prigionieri che erano stati sparpagliati nella zona vengono raggruppati assieme ai prigionieri tedeschi in un piccolo campo posto dietro alla Chiesa di Pontchâteau. Qui, un giorno mio padre, da dietro il reticolato, vide mia madre che discuteva con i responsabili francesi del campo: era venuta a chiedere informazioni sul destino di quei prigionieri. Mio padre avrebbe voluto avvicinarla ma un giovane soldato francese si pose in mezzo impedendo ogni contatto, Da quel giorno,e per un anno, poterono avere solo dei contatti epistolari.

5. Il trasferimento a Nantes

Verso al fine di maggio i prigionieri vengono trasferiti in un capannone a Chantenay (Loire Inférieure- Deposito n°44) (dopo due giorni passati presso l’aeroporto di Montoir de Bretagne, nelle baracche occupate precedentemente da degli Alsaziani).

Un gruppo di prigionieri italiani, tra i quali mio padre, vennero condotti all’aeroporto di Château Bougon per riempire le buche che si erano formate durante i bombardamenti. Attraversando la città di Nantes, a piedi, i francesi posti ai lati delle vie li insultavano. Qualcuno tentava anche di picchiarli e anche mio padre si vide assalito; per fortuna, uno dei soldati di scorta, un nordafricano, lo protesse in maniera decisa, prendendo l’assalitore per la collottola e depositandolo sul marciapiede.

Il grippo dei prigionieri era alloggiato nel château che dà nome all’aeroporto, in gran parte distrutto dalle bombe. A partire da questo momento i prigionieri hanno cominciato a soffrire la fame, la razione di ogni pasto consisteva in un piccolo pezzo di pane (una baguette in cinque) assieme a un piatto di un liquido indefinito nel quale si trovava qualche pezzo di rapa. I prigionieri si indebolivano giorno dopo giorno e nemmeno i soldati che li sorvegliavano avevano il coraggio di insistere perché lavorassero di più. In quel posto vi erano anche degli operai francesi, dei civili, guidati da un capo squadra di origine italiana. Questo ultimo prese a cuore la situazione dei compatrioti prendendo contatto con le autorità consolari italiane che erano a Nantes. Nello stesso tempo gli operai francesi facevano dei piccoli scambi con i prigionieri fornendo loro qualcosa da mangiare in cambio dei soldi di cui disponevano i prigionieri. Ma le autorità francesi vollero impedire questo traffico sequestrando tutto i denaro e gli oggetti di qualche valore. Quei prigionieri che cercavano di nascondere qualche avere, se scoperti, erano puniti fisicamente. Mio padre volle correre il rischio di tenere nascosto un biglietto di 1000 franchi"nuovi" (appena cambiati per il tramite di un soldato di guardia) sotto un foglio di carta nella sua valigia ed ebbe la fortuna di non essere scoperto.

 

6. Il trasferimento ad Amboise

136-200.jpg (22600 octets)Il 29 giugno tutti i prigionieri vengono fatti partire per il dépôt 41 d'Amboise; in treno fino a Tours, 60 per vagone, pigiati come sardine, e poi a piedi fino al campo. Qui sono sistemate tre baracche una per i Tedeschi, la seconda per gli Italiani e la terza per i Rumeni

I prigionieri erano malnutriti L’unica speranza era quella di essere scelti al mattino per andare a lavorare nelle fattorie dei dintorni e avere così la possibilità di mangiare. Al mattino, così, era la corsa a chi arrivava primo per essere "assunto" Per gli italiani, in questo modo, c’era qualche possibilità, ma per i tedeschi, che non avevano la stessa opportunità e dovevano accontentarsi delle razioni del campo era molto dura. Anche la solidarietà non era eccessiva. Tuttavia quando per gli italiano cominciarono ad arrivare dei pacchi della Croce Rossa argentina i superiori li convinsero a cederne una piccola parte anche ai tedeschi. Fra gli italiani vi erano anche due ufficiali dei carabinieri che rivolgendosi al comando del campo cercavano di far rispettare la convenzione di Ginevra..

Per quasi un mese un gruppo di loro fu dislocato a Chalet per pulire le strade e sistemare un piccolo laghetto nelle vicinanze della città. Mio padre aveva un ottimo ricordo dell’operaio francese che era stato incaricato di sorvegliarli poiché prendeva le loro difese quando erano presi a male parole da altri cittadini frances ("non è colpa loro, le guerre sono decise dai capi!").

Poco tempo prima di morire, nel raccontarmi qualche aneddoto della sua prigionia fece questa osservazione: "Nei due anni e mezzo di prigionia ho avuto al fortuna di non essere mai colpito fisicamente, né dai tedeschi né dai francesi, ma per gli altri non è sempre stato così" Forse la sua fortuna è stata, prima, quella di conoscere qualche parola di tedesco, e poi, grazie a mia madre, anche qualche parola di francese.

 

7. Il rimpatrio

All’inizio di novembre 1945 gli italiano hanno cominciato ad essere rimpatriati. Mio padre è partito da Saumur per giungere a casa attraverso Lione e Ventimiglia il 6 dicembre 1945. Durante il viaggio erano assistiti dalla Croce Rossa che organizzava posti di ristoro e li fornì anche di scarpe o di vestiario a seconda di che cosa era più malridotto.

Nei mesi successivi mio padre ha tentato più volte di ottenere un passaporto per ritornare in Francia e ricongiungersi con la fidanzata, ma le norme del periodo impedivano i "viaggi turistici" Così, fu mia madre, accompagnata da una sua sorella a venire in Italia nel maggio del 1946 per il matrimonio che ebbe luogo l’8 giugno seguente

Recentemente il 7 e l’8 febbraio scorsi, dopo quasi 58 anni di matrimonio, se ne sono andati a ventiquattr’ore di distanza l’uno dall’altra per ricongiungersi, definitivamente, da un’altra parte.

È in ricordo della storia d’amore dei miei genitori e per onorarli che ho messo insieme questi piccoli ricordi di un periodo di sofferenza.

Bruno Bortoli

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